Marr number 01-002


In publications:
(D.tr) Campus Verlag: Über den Selbstmord..., 1994 (p. 94)
• Giacomo Casanova, Dialoghi sul suicidio / Giacomo Casanova ; saggio introduttivo e cura di Paolo L. Bernardini, Roma, Aracne, 2005 [added by Hélène Miesse, August 12, 2025]
Giacomo Casanova, Sur le suicide : Dialogues sur le suicide, trad. René de Ceccatty, Paris, Payot & Rivages, 2007 [added by Hélène Miesse, October 31, 2025]
Marita Slavuljica, Giacomo Casanova. Die Geschichte seines Lebens, Frankfurt am Main/Berlin/Bern u.a., Lang, 2006 [added by Hélène Miesse, October 31, 2025]
Paolo Luca Bernardini, "Casanova on suicide", Casanova : Enlightenment Philosopher, ed. Ivo Cerman, Susan Reynolds and Diego Lucci, Oxford University Studies in the Enlightenment (Oxford, Voltaire Foundation, 2016), p. 135-155. [added by Hélène Miesse, October 31, 2025]


Last modified: October 31, 2025
Contributors to this transcription: Hélène Miesse

[22] Nove dialoghi

Donec revertatis in hunum cum ex ea desunptus tueris

[1]nam pulvis es et in pulverem

reverteris Genesi C.III.V.19

 

L’autore al lettore

Ho scritto tredici anni fa un trattatello contro il suicidio,

ed il pubblicai. Nel corso di questi anni pervenne a mia notizia

il suicidio di due personaggi, che eseguirono nel giorno suss-

guente a quello, in cui lessero la mia disserazione. N’abbi dis-

petto. Conviene, dicci, fra me, che io abbia mal dimostrato es-

sere il suicidio abominevole azione, poiché que’ due che l’han-

no letta non avrebbero dato in quell’eccesso se non mi a-

vessero letto, sarebbero forse ancora nel dumero de’ vi

-venti. Afflitto di tale avventura, e voglioso di riparare al

danno, che involontariamente feci al mio umano genere, mi

determinai a scrivere in favore del suicidio, sicuro, che se il mio

ragionamento contro armo destre, l’effetto di questo dovrà es-

sere di disarmarne. Io mando dunque al lettore, sotto gli occhi

tuoi questi nove dialoghi, sperando di aver ragionato in essi

abbastanza male, perché tu ti persuada a serbarti in vita

fino al punto inevitabile della tua morte naturale, convinto//[23]

da quelle ragioni appunto, ch’io allego per dimostrare, che chi né

pazzo, né disperato se uccide fa un’azione da uomo savio, una

volta che questa vita gli sembra un incomodo peso.

Acciocché poi le cause sieno eguali, onde si possa sperare una

Perfetta eguaglianza anche negli effetti, posso assicurarti, che nel

Modo istesso che scrissi con mente sincera, ed in conseguenza del io

Pensare contro il suicidio[2] allora, così scrissi ora questi dialoghi con

Intenzione di farne il panegerico. Cosµi pensavo a quel tempo, e

In altra guisa penso adesso. L’uomo dipende dalle circostanze in cui si trova, ed è ragionevole, se cangiase con esse. Malgrado ciò,

sento, che avrò piacere, se non persuaderò. Desidero solamente, che

vengano questi miei dialoghi ben esaminati da quelli, che mi so-

pravviveranno, se il caso avvenisse, ch’io fossi per aver bisogno di

giustificazione, o di compatimento, sentimenti a’ quali aspiro,

benché disprezzi la vita. Mi preme di non passare né per

pazzo, né per disperato. Addio.//

 

[24] Dialogo I

Fede

A. Mi sembra, Amico mio caro, che molto bene, e molto profonda-

mente abbia pensato, ed esaminato colui, che disse Vitam nemo

acciperet di daretur scientibus[3].

B. Egli fu Seneca, e così dico anch’io. Supporta la preesistenza dell’anima

nella quiete è impossibile l’immaginarsi, ch’essa, bene informata di

tutto ciò, che in generale accade all’uomo in questa vita, e di tutti

i mali, a’ quali va soggetto, acconsentisse ad entrare in un corpo.

Ma che vuoi dedurre da questo?

A. Deduco, che la vita è in complesso un male, una vera disgrazia;

e decido, che l’uomo pensante, e ragionevole, che non ne è contento,

dovrebbe uscirne, e terminar di credere, che ciò facendo commet-

tesse un’azione ingiusta; ovvero, che questo sforzo non gli sia da ciò,

che debbe a se medesimo permesso.

B. Ed in fatti l’idea di dover a se stessi è di soverchio composta. Un

debito con me stesso mi sembrerebbe di niun valore, poiché il mio

creditore, che son io, non può mai da me esigerlo con mio

incomodo. Il debitore, ed il creditore son troppo uniti d’inte-

ressi. Non vedo poi come non possa ognuno esser padrone

di rigettare un dono, che il donatore gli fece senza aspettare

il di lui consenso; anzi credo, che scimunito debba essere ripu-

tato colui, che trovandosi incomodato da una cosa, che gli

venne regalata, non sa liberarsene. Potrebbe però esser

tale il rispetto, e la riverenza, che dovesse a colui, che gliela

diede, che non potesse senza offenderlo rigettarla.

A. Questo è il punto su cui ti volevo. Ragioniamo. Il solo//

[25] motivo dunque, che può secondo te vietar all’uomo il privarsi di

vita, è l’abborrimento, ch’egli dee avere, a mancar di riverenza,

e di rispetto a colui, che gliel’ha data. Dimmi tu da chi il filosofo

dee riconoscere la vita, e lascia di chiamarla un dono, poiché non

potendo esser chiamato dono se non ciò, che è onesto, utile, o di-

lettevole, abbiamo già deciso, che dono non si può chiamare.

B. L’uomo non può credersi debitore della sua esistenza che all’

immortal creatore, o al mortal genitore, o al caro; e se al caro,

confesserò anch’io, che allora chiunque soffrisse molto in questa vi-

ta, e non si uccidesse, potrebbe sembrare sciocco; ma di giudizio

sembrandomi già privo, quando a null’altro attribuisce le ca-

gioni di quaggiù che al caso, dirò in conseguenza, che dee con-

servarsi in vita, poiché se è sciocco, da sciocco dee operare.

A. Ti ho inteso; ma questa è un’altra questione, che agiteremo

a suo luogo, poich’io con tua licenza credo, che il meno sciocco

tra gli uomini sia anzi quello, che crede tutto dipendere da ca-

so, e toccherà a te il provarmi, che questo tale sia sciocco, poiché

nel tempo medesimo; ch’ei crede tutto parte del caso, ammette il

caso come causa necessaria di tutto, e come necessarii tutti gli effetti,

onde avviene, che tutto ciò, ch’è, debba essere, e che nulla pos-

sa avvenire, che non si trovi necessario rispetto alle combinazioni.

B. Dirò sopra di ciò quello ch’io penso quando vorrai. Mostrami

intanto com’esser possa, che l’uomo non riconosca la vita, o

dalla volontà di Dio, o dal suo genitore.

A. Ti ho già detto, che non è questo il tempo ch’io debba ciò dimos-

trarti, poiché la riconoscerebbe dal caso; ma il mio assunto sarà

di farti vedere, che non debba essere trattenuto dal privarsi//

[26] di vita né per riverenza che debba al creatore, né al padre,

supposto che ad uno d’essi la dovesse.

B. Ti ascolterò volentieri.

A. Essendo evidente, e già da noi ammesso, che la vita è un male,

rimane manifesto, che se il creatore, che ce la diede, è sostanza

pensante, si dichiarò, dandola, maligno e degno di tutt’altro senti-

mento fuori che di quello della riverenza, e della commissione.

B. Volle forse il creatore dar all’anima nostra questa vita mortale,

e penosa per incamminarla ad una beata immortalità, ricompen-

sa dovuta alla sofferenza de’ mali sofferti in questa breve carriera,

e delle virtù, che avrà esercitate; ed in tal caso il suicida merita la

di lui indignazione, ed i maggiori castighi nell’altra vita.

A. Queste cose, che tu mi alleghi, non possono presentarsi probabili

che alla mente di quelli, che non ragionano, e che non meritano anzi

di aver per guida la ragione. Creazione di anima a bella posta

per ogni corpo, che poche settimane avanti fu concepito nel ven-

tre di una donna. Anima sostanza reale, e pure spirituale, che

malgrado che abbia avuto principio, non dovrà aver mai più fine.

Immortale, e ciò nonostante soggetta a divenire eternamente infe-

lice, se in questa sua breve carriera non avrà combattuto contro i

sensi, e riportato vittoria con la scorta della sua ragione, la qual ra-

gione nello stesso tempo avrà dovuto essere da lei medesima calpestata,

allora quando si abbia trattato di esaminare la stravaganza di que’

doveri, che gente abbietta a lei presentò, ordinandole di crederne

l'infallibilità malgrado la loro assurdità sotto pena di eterna

dannazione. Ti pare, amico, che la sana filosofia possa tran-

gugiare si amare pillole?

B. Perdonami, amico carissimo, se ti dico, che non è vero, che per//

[27] aver fede convenga calpestare la ragione. Convien anzi adoprar-

la per riconoscere la necessità della fede, e portere in possesso a lui

farla tacere, quando volesse ergersi in esaminatrice de’ dogmi,

i quali se stessero alla di lei capella non si potrebbero più chiamare dogmi.

A. È vero. Vogliono i sacri legislatori depositarii di una sognata, ed

imbrogliatissima tradizione insinuarci, che con la fede possiamo creder

vere tutte le loro favole. Io rispondo loro, che rinunziando alla ra-

gione, e servendomi della sola fede, non potrò mai dire, che le loro

asserzioni sieno false, ma che scientemente non potrò mai dire, che

sieno vere, se non servendomi della ragione, poiché il credere una

cosa non può dipendere, che dall’esame della sua probabilità, e ques-

to esame è sempre figlio della ragione. Odi, ti prego, la formula, che

prescrivono; e tienti dal ridere, se puoi.

B. Per non sentirmi eccitato al riso, te la voglio dir io. Dovette credere le

cose, che vi abbiamo insinuato senza porle all’esame della vostra frale

ragione, poiché sono tutti misterii divini oggetti della sola fede, ch’è ce-

ca, sommessa, ed ubbidiente; la qual fede siete padrone di avere

con un atto assoluto della vostra volontà di concerto con la vostra ragione.

A. Ottimamente. Hai detto ciò, che avrei detto io medesimo. E non ridi?

Odi ciò dunque, ch’io posso loro rispondere. Acconsento a credere tutte quelle stranissime cose, che mi avete annunziate, e che chiamate divine;

e vi assicuro, che non avrò mai sopra la loro realità dubbio alcuno,

abbenché io sappia, che se le porrò all’esame della mia ragione, troverò,

che sono tutte o assurde, o puerili, o impossibili. Un uomo, che dopo di

aver parlato così si muore, è un beato.

B. Ora sì, mi fai ridere. Un uomo che facesse una simil professione

di fede, sarebbe interdetto. Ei dice di creder tutto benché sappia,

che tutto è falso. Qual fede è mai questa?

A. È la sola, che per contentare chi vuol imporre, un filosofo può//

[28] avere. Dove hai tu provato filosofi, che possano creder possibile

un triangolo composto di una sola linea? Qual è questo merito, che

in faccia ad un dio creatore può aver un uomo credendo ciò,

che non dee credere con quella stessa facoltà della ragione, che gli

ha egli medesimo impartito per combattere i sensi, per vincere,

e debellare le nocive passioni, e per distinguere il vero dal falso?

B. Ma essi non ti dicono già di credere i misteri con la ragione, ma

bensì con la fede.

A. È perché no con la ragione?

B. Perché all’esame della ragione apparirebbero assurdi, e con-

traddittorii.

A. Dunque impossibili.

B. Sì, impossibili.

A. E credendoli con la fede cesseranno dunque di essere quello,

che in fatti sono? Dove hai imparato, che l’esistenza, o l’ine-

sistenza di una cosa qualunque dipenda dall’essere creduta

esistente, o non esistente? Io non posso, neppure con la fede

dire credo a’ misteri senza confessare tacitamente, o apertamente,

che sono possibili: ma se so, che la ragione li mostra impossi-

bili, come posso crederli?

B. Con la fede; e questo è il merito, che vogliono che tu abbia.

A. Come posso aver merito a dire una menzogna? Menzogna,

poiché, se quando io dico li credo voglio esaminarmi, e vedere se

veramente io li crea, scuopro che ho mentito. Credimi, che

quelli, che vogliono insinuare la ceca credenza, cioè la fede, es-

sere una virtù, sono impostori, o pazzi; e che quelli, che ascol-

tando la loro dottrina si mettono di questa pretesa virtù//

[29] in possesso sono timidi animali indegni dell’uso di ragione; né più di ciò

potrei dirti.

B. Dicono, che l’uomo non sa nulla; che va troppo orgoglioso della

sua ragione, ch’è frale, e fallace, e che perciò diventa eroe, se può

con un magnanimo sforzo umiliarsi, e soggiogarla, contemplando la

sapienza di Dio, e restringendosi nel suo niente.

A. L’uomo non sa nulla? L’uomo sa tutto quello, che mente

può sapere, e può giudicare quali sieno le cose, che non può sa-

pere, e quelle a saper le quali è necessario lungo studio. Egli

va troppo orgoglioso della sua ragione? Io nol credo, poiché trop-

po spesso la vede di soverchio parziale a’ motivi, che allettano le passioni,

onde ne’ continui combattimenti il più delle volte soccombe. La ragio-

ne è frale, ed anche fallace, te l’accordo anch’io; ma qual facoltà

ha l’uomo, cui ne’ bisogni suoi possa ricorrere, men frale, e meno

fallace della sua ragion? Qual è l’uomo pensante, che abbia

errato, e che dopo commesso l’errore, abbia all’esame trovato[4] la

sua ragione o più rea, o più inavveduta di lui? A me basta, amico,

che l’uomo, ch’errò, confessi il suo errore, e che non s’inganni

nelle cause, ed il buon filosofo non s’ingannerà mai. Dicevo, che

l’uomo diventa eroe, quando con un magnanimo sforzo si u-

milia, e contemplando la sapienza di Dio soggioga la sua ragione,

e si limita nel suo niente. Qual eroismo! A me sembra piuttosto,

che rinunziando al più bell’appanaggio, che la divinità abbia con-

cesso all’anima sua se ne renda ipso facto indegno, e diventi reo.

Lo sforzo poi, che farebbe non sarebbe magnanimo, ma figlio di

vile condiscendenza, di debolezza d’intelletto, di timore di minac-

ciati castighi, e di avvilimento di animo, che il conduce a smen-

tirsi di tutto ciò, che asserì con sano intelletto. Contempla la sa-

pienza di Dio, e si limita nel suo niente. L’uomo non può contemplare

la sapienza di Dio che con la ragione, che gli ha dato in retaggio; e non

è vero, che contemplandola debba limitarsi nel suo niente. Chi gli an-

nunzia ciò, che questa sapienza eterna esiga? Chi sono quelli, che//

[30] vogliono, ch’ei si reputi uno niente? Chi dice, che una contempla-

zione della sapienza eterna abbia a aver per conseguenza un ri-

nunzia alla più bella fra tutte le facoltà, che la stessa sapienza gli ha

date? Quello, che insinuano all’uomo questa ingrata sconoscenza di se me-

desimo, sono uomini, che si dicono interpreti di Dio, impostori di professione,

miscredenti, se sono dotti, e superbi, se sono ignoranti. Ed il filosofo dee

prestar orecchio a costoro? L’uomo, dicono, è niente. L’uomo niente?

Se l’uomo è niente, qual tra li animali sarà qualche cosa? Dopo

il creatore, ch’essi medesimi annunziano, diano un’occhiata alla terra,

e mirino chi sia l’uomo. Tra le sciagure della vita l’uomo pen-

sante, e sempre attivo fece, fuori che la malevia, tutto ciò, che

di bello, e di buono contempliamo su questa terra, la quale

senza di lui apparirebbe brutta, defforme, ed inabitabile.

B. Chiamano l’uomo un niente respettivamente[5] alla grandezza

del creatore, alla brevità della sua vita, alle debolezze,

cui soccombe, a’ mali fisici, e morali, da’ quali è oppresso.

A. Il so. Ma chi non vede l’incongruenza del paragone? Per pro-

varlo l’uomo niente, convenia loro paragonarmelo alle cose

di quaggiù, e non sorprendermi l’intelletto con la comparazione

del finito all’infinito, del creato all’increato, che nel mio razio-

cinio non può trovare luogo.

B. Sopra di ciò basti, poiché credo, che hai fisso, che favole sieno tutti i domeni,

e l’immortalità dell’anima, ed i premii, e le pene all’altra vita. Parlami

della malignità, che supponi in Dio, tu che pretendi di non dovergli riconoscenza

alcuna per averti data la vita cumulo di miserie. Parmi, che ciò a un Dio

creatore non possa competere, che debb’essere buono, e giusti, e che diviso

da tali attributi non mo sembrerebbe Dio.

A. Questo sarà il mio discorso di domani, e ti pregherò a non ris-

parmiarmi tutte quelle obbiezioni, che crederai necessarie o a

render più chiara ogni parte del mio ragionamento, o a sciogliere

que’ dubbi, che potessero sopravenirti.



[1] Importante rature qui occupe une demi-ligne.

[2] Une virgule est barrée.

[3] Citation attribuée à Sénèque, présente aussi dans l’Histoire de ma vie, t. 2, 133v.

[4] Une tache d’encre sépare les mots.

[5] Il y a une bavure d’encre au niveau du premier -e.